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  • Camilla Annibaldi, responsabile Centri Antiviolenza, psicologa e psicoterapeuta

25 Novembre - per una corretta informazione

Sono operatrice nei centri antiviolenza da dieci anni e se c’è una data che odio è il 25 novembre. “Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne”, che ormai è divenuta “la giornata della violenza sulle donne” (come se fosse un raduno internazionale di maltrattanti!). Potreste chiedervi: “ma come? Dovrebbe essere “il tuo santo patrono” … e invece no! Perché provo questo sentimento di avversione? Perché tutti parlano di violenza (post social, fiction, programmi televisivi), ma la maggioranza affronta il tema in maniera approssimativa, fornendo un livello d’informazione errato, discriminatorio, lontano dalla realtà e dannoso per la conoscenza reale del fenomeno e per le donne, che stanno vivendo una situazione di violenza.


A cosa assistiamo il 25 novembre di ogni singolo anno?


1) Motti che vorrebbero essere esortativi “Al primo schiaffo denunciate”, “Abbi rispetto di te stessa!”. Quanto queste frasi sono lontane dalla realtà? Quante persone denuncerebbero l’amore della propria vita per uno schiaffo? Quante forze dell’ordine raccoglierebbero una denuncia per “uno schiaffo”? (Senza contare che per un singolo evento non sarebbero attivate misure di protezione). Dopo che ho denunciato le violenze che subisco, magari da anni, che probabilmente mi hanno portato ad isolarmi dal mondo sociale e a perdere/lasciare il lavoro… Dove vado? Come mi guadagno da vivere? In TV non solo vedo che non è compresa la mia situazione emotiva, ma mi sento giudicata. Allora spengo tutto, anche la mia consapevolezza, perché sono comunque invisibile: sia agli occhi del maltrattante, che mi vede come “cosa sua”, che dell’opinione pubblica.


2) Immagini, filmati di lividi e danni fisici importanti. Il risultato per le donne che vivono una situazione di violenza, che non ha (ancora) portato a quel livello, è sentire che non stanno vivendo una situazione rischiosa, perché “le vere violenze sono altro”.


3) Conta delle donne che sono state vittime di femminicidio nell'ultimo anno (vi faccio uno spoiler saranno tra le 115 e i 130). Non voglio apparire insensibile verso chi, purtroppo, ha perso la vita per mano di chi avrebbe dovuto amarla, ma se fossero 10 o 50, per me sarebbero comunque troppe. Ed anche in questo caso, una donna non a rischio di vita penserebbe di non aver diritto all’aiuto di un centro antiviolenza. Molte donne che abbiamo incontrato al CAV (acronimo di Centro Antiviolenza) preferirebbero morire perché “almeno da morta smetterei di soffrire e di aver paura, sarei libera”.


4) Attribuire la responsabilità di condotte violente ai disturbi psichiatrici del maltrattante (quasi sempre disturbo narcisistico di personalità, perché il borderline “non va più di moda”) o alla dipendenza affettiva della donna, porta a deresponsabilizzare gli autori delle violenze (perché malati). Ed è altresì rischioso attribuire diagnosi, perché ciò allontana la presa di coscienza delle donne, sulle dinamiche di violenza, portandole a chiedere esclusivamente un supporto psicoterapeutico, ma non un aiuto specializzato, per situazioni di rischio. Ben vengano le riflessioni cliniche sulle dinamiche di coppia, ma queste devono essere affrontate distinguendo correttamente un rapporto conflittuale da un rapporto in cui c’è un soggetto che agisce violenza, commettendo un reato, ed uno che la subisce. Perché ricordiamocelo che “questa è una situazione da codice penale” (gli appassionati di cinema coglieranno la citazione.)


Come dovrebbe essere una giusta comunicazione? REALE


1) La violenza s’incontra. La vera domanda da porsi non è “perché mi sono andata a cercare un violento”, bensì “cosa mi sta impendendo di andar via?”, allargando quindi la riflessione a livello sociale e culturale, non solo personale.

2) Comunicare che non solo i lividi sono segnale di violenza.

3) Comunicare che non sempre la violenza è letale, ma non per questo è meno grave.

4) Informare sui diritti in materia penale, civile e minorile.

5) Informare sul funzionamento dei centri antiviolenza e della rete antiviolenza.

6) Aprire la porta a testimonianze di donne che parlano non “di quante ne hanno prese in passato”, ma di com’è ora la loro vita libere dalla violenza. Possono riferirsi al passato parlando di sé e di cosa le ha bloccate nell’andar via, così da essere un reale esempio da seguire, non martiri da compatire.

7) Superare il concetto di vittima per arrivare a quello di sopravvissuta. La vittima è inerme, cristallizzata nel momento della violenza; la sopravvissuta è viva, abita nel mondo, ha desideri, sogni e progetti.

8) Riflettere sul rispetto delle differenze di genere e sulla parità all’interno delle relazioni, nonché sul peso che la discriminazione di genere ha nella vita degli uomini e delle donne ( su questo vi invito a vedere due video prodotti dall’equipe dei centri antiviolenza gestiti da Girotondo) https://www.youtube.com/watch?v=kceb01vEF-E e https://www.youtube.com/watch?v=Zxov1HKMgSw


Recentemente ho partecipato ad un incontro con un magistrato in cui, rispetto alla tematica, ci si riferiva a “persona offesa” e “autore di reato”. Questa terminologia, prettamente giuridica, mi ha trasmesso forza: è una chiara fotografia della realtà, priva di giudizio. Non si è definiti manipolativi, narcisisti, violenti, ma autori di reato. Non si è vittime inermi, delle moderne cappuccetto rosso, si è innanzi tutto PERSONE e se posso essere offesa, posso permettermi di essere tante cose: arrabbiata, delusa, ferita, incattivita, forte, debole, combattiva, decisa... LIBERA.


La violenza è entrata nella mia vita, ne sono stata colpita, ma questo non mi definisce. Ciò che per me è importante è stata la voglia e la possibilità di non esserlo più.


Avrete notato che scrivo in prima persona perché non sono neutra nell’argomento, in quanto come afferma Shirin Ebadi: “Le donne sono un solo popolo sparso ovunque nel mondo: la violenza è il problema che le accomuna tutte, ma che rende anche straordinaria la loro lotta”.


Da donna e operatrice di centro antiviolenza so quale è il mio posto: al fianco delle donne.

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