Mi presento: mi chiamo Elisabetta, sono un’operatrice di un Centro di Prima Accoglienza, denominato Il Grembo. La struttura accoglie minori dai 0 ai 12 anni che, in determinate circostanze, vengono allontanati dalle famiglie. Ho iniziato il mio viaggio all’interno della Cooperativa Girotondo circa 10 anni fa: ho conosciuto la responsabile, mi era stato dato un quadro generale di quello che stavo per conoscere, lontano dalla prospettiva di una ragazza cresciuta in una famiglia di commercianti ed ignara di quello che il mondo poteva nascondere. Una volta entrata a far parte dell’equipe multidisciplinare, mi sono resa conto che quelle ore di supervisione psicologica garantite al mese per i dipendenti forse erano davvero indispensabili: ho incontrato bambini più cresciuti di me che, nei loro occhi, avevano visto più cose sicuramente della sottoscritta. Ho incontrato genitori, tanti genitori, che per un motivo o per un altro (non scendo nel dettaglio) seguivano percorsi di riabilitazione, di sostegno psicologico, come previsto dal decreto di allontanamento del proprio figlio, per dimostrare la loro genitorialità.
Genitorialità… che parola!
Abbiamo a che fare molte volte, nel corso degli anni, con questa parola: genitorialità. Ci interroghiamo spesso su cosa significa essere genitore e su cosa si esclude - a prescindere - per evitare critiche e “sguardi giudicanti”. Basti pensare che, a volte, sono i nostri stessi figli che apprezzano e/o disprezzano alcuni nostri comportamenti, alludendo a ciò che poteva essere fatto o meno e costringendoci ad un esame di coscienza. Per non parlare del continuo senso di colpa che investe il genitore lavoratore: “lavoro per lui/lei”, lo si ripete tipo cento volte durante le ore di lavoro, ma poi ci si sente stringere il cuore ad immaginarlo/a con babysitter, nonni, scuola o altro genitore; “come sappiamo fare noi, non lo sanno fare gli altri” e si cade, anche qui, nel grosso burrone della “genitorialità… non è sempre tutto rosa!”.
Nel nostro lavoro…
Quando entri da quella porta, ti spogli completamente di tutti gli abiti: in senso più pratico ti dimentichi di essere donna, uomo, madre, padre, di avere genitori e fratelli… o almeno, ci provi, indossando la veste di professionista, educatore, psicologo, assistente sociale, in grado di scindere la vita privata da quella professionale. Ho detto bene: ci provi. Ma sono rare le volte che ci riesci, così rare che in dieci anni le puoi contare sulle dita di una mano. Come fai a lavorare con bambini che potrebbero avere l’età di tua figlia e rimanere distaccata? Come fai a non sbottare contro un genitore che sai aver avuto quei comportamenti così “loschi?” Queste sono solo alcune delle domande che mi vengono continuamente rivolte da parenti/amici/ conoscenti che sanno qual è il mio lavoro ma non lo conoscono fino in fondo.
Come riuscire ad essere più consapevoli?
È difficile. Ci vogliono gli anni, lacrime, fiato corto e denti stretti prima di arrivare ad una certa consapevolezza, che certa non lo è mai. Ti limiti, ti ridefinisci come professionista e come persona: segni i tuoi limiti, impari a conoscerti e a capire quando è il caso di affidarsi al collega vicino per “evitare che…”. Certo, ci si sente davvero strappare il cuore… credetemi… Ti senti strozzare la gola. Mandi giù, stringi i pugni e cerchi di dare il meglio al fine di non venire meno al tuo ruolo di operatore. E poi ci sono le visite parentali: parliamoci chiaro, avresti voglia di urlargli contro “come hai fatto?”, ma noi chi siamo? Io sono un educatore e tale devo rimanere; nelle mie vesti cerco di indicare al genitore la strada più facile, cerco di reindirizzarlo verso quei servizi che possono e devono dargli una mano per recuperare la propria “responsabilità genitoriale”. Molte volte, ti ritrovi anche a sopportare, a chiudere tra le mani un decreto, un pezzo di carta che scrive nero su bianco il fallimento di un genitore e la nuova vita per un bambino che, forse, ne ha sopportate troppe.
Descrivere un lavoro “così”
Il mio lavoro è davvero “tanta roba” e non basterebbero un milione di parole per descriverlo. Te lo senti addosso, te lo senti dentro e professionale o no, te lo porti anche a casa. Perché forse un lavoro del genere ti mette davvero a dura prova: scombussola il tuo essere, la tua identità, dividendo quest’ultima in tanti piccoli pezzi da cogliere poi un po’ alla volta.
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