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Una nessuna centomila - Parte I

Mordanini R., Tripoli S., Forestiero C. - Operatrici CAV

Si ringrazia per l'immagine Liberty l'autrice Bruna Ettorre, tutti i diritti riservati


Turno al Centro Antiviolenza: Prima e dopo ogni turno al Cav resto seduta in macchina un paio di minuti: ho bisogno di prendere fiato per immergermi e riemergere dalle storie delle donne che si siedono sul nostro divano bianco. Mi sento come Victoria[1]: nuoto contro corrente facendo ricorso a tutte le mie forze per non farmi trascinare dalle emozioni che ogni volta mi travolgono. Seduta sul divanetto ho imparato ad ascoltare non solo le loro parole, ma anche i lunghi silenzi, le calde lacrime, i sorrisi tirati, gli occhi abbassati o persi nel vuoto. Noi operatrici abbiamo tutte una donna, una storia che più ci colpisce e ci smuove qualcosa dentro.


La mia “donna”

La mia “donna” sono tutte le donne che ancora non hanno telefonato, ma delle quali conosciamo un frammento del loro vissuto perché arrivate da un invio di terze parti. Ascolti la storia, prendi appunti, memorizzi dati e attendi che prima che il tuo turno sia finito la donna chiami per fissare il primo colloquio. Telefonata che spesso non arriva nemmeno nei turni successivi.

La mia “donna” sono tutte le donne che dopo aver trovato per un attimo la forza e il coraggio di chiedere aiuto spariscono inghiottite dal silenzio, avviluppate nuovamente nel manto della solitudine.

La mia “donna” sono le due giovani ragazze arrivate al centro spinte da genitori preoccupati, smarrite e poco consapevoli delle violenze subite. Donne che stavano vivendo “il primo vero amore” che di vero e di amore non aveva nulla. Eclissate dopo i primi colloqui.

La mia “donna” sono tutte le mamme che definiscono il maltrattante un “bravo papà” perché non “ha mai torto un solo capello” preferendo dimenticare tutte le volte che i bambini sono stati costretti ad assistere inerme alla botte, agli insulti, ai pedinamenti, alle umiliazioni.

Infine la mia “donna” sono tutte le donne che hanno chiamato, che si sono sedute colloquio dopo colloquio davanti a noi operatrici per raccontarsi, che si sono asciugate le lacrime e rimboccate le maniche, che hanno affrontato processi, e che passo dopo passo stanno costruendo un futuro diverso. Come Agata.


La storia di Agata

Si presenta un giorno al centro questa donna tanto slanciata quanto minuta allo stesso tempo, e già scorgi dietro la mascherina e poche flebili parole tutta la sua fragilità. È profondamente arrabbiata, con il marito maltrattante che non vuole andare via di casa “con le buone”, con i genitori che abitano al piano superiore e che non sono supportivi, ma soprattutto con sé stessa. Per aver permesso ad un uomo di maltrattarla, di “ridurla così”, perché - alle botte che Agata ha sempre preso in 20 anni - si aggiunge la violenza verbale e psicologica quotidiana che l’ha plasmata.


Come sta Agata?

Agata è esasperata, sente di non farcela più ……


… Continua …

[1] Power M.G. “La principessa che credeva nelle favole. Come liberarsi da principe azzurro”. Edizione Piemme spa

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