Due storie che ci invitano a riflettere sul nostro essere donne - mamme ma ancor prima, semplicemente persone, con una propria identità e dignità da proteggere e riscoprire…
La storia di F. - violenza e delirio religioso: incontriamo F. assieme all’assistente sociale che l'accompagna al Centro Antiviolenza. Appare minuta, timida, quasi nascosta dietro la persona che la presenta. Da quel giorno la sua storia è parte del centro, di noi operatrici che ascoltiamo i racconti, le emozioni e la difficile elaborazione del vissuto di violenza. Colloquio dopo colloquio si affida, si mostra e non solo a parole, ma anche nella postura “aprendosi” a noi, ma ancor più a sé stessa. Inizia il cambiamento e lo si vede anche dall’aspetto fisico/estetico, che notiamo evolvere durante il percorso: pesava soltanto 43 kg, appena conosciuta. Ascoltiamo la sua storia e percepiamo l’enorme vissuto di maltrattamenti e violenze, perpetuate dal marito: violenze fisiche, psicologiche ed economiche ma non solo, violenze aggravate da una componente di “delirio religioso” per la quale la donna è stata costretta subire e sottostare, rispettando precise regole e indottrinamenti, che di religioso non hanno proprio nulla. Quanto può essere difficile ed umiliante subire vessazioni e vere e proprie lapidazioni, con la paura di non sopravvivere?
Se ne può uscire? Con una forza ed un coraggio incredibili, F. è riuscita a dire "basta" ad anni di soprusi, umiliazioni, sottomissioni e sensi di colpa, perché sembra impossibile, ma si può uscire da certe dinamiche violente e liberarsi dalla “spirale della violenza”. Oggi è una donna più serena e distesa, come anche nella postura e nei modi di approcciarsi agli altri, ha recuperato la propria dignità, anche “fisica”; nonostante le difficoltà riscontrate e affrontate durante il proprio percorso, non ha mai mollato affidandosi al Centro Antiviolenza, con grande tenacia e voglia di riappropriarsi della propria vita ed essere finalmente libera.
Quanto amore si può provare nel chiamare la propria bambina “Joy”?
Il fallimento di un progetto di vita disatteso, si deve per forza “incollare”, indelebile su delle proprie mancanze, colpe. “Joy ora c’è, cresce, lui con lei è un angelo” è chiaro che “è colpa mia!” “È colpa mia se non sono abbastanza, se non lo rendo felice, se si arrabbia, se mi minaccia, se mi alza le mani” e ancora “se sto zitta, cambierà, di fatto è un buon padre, esemplare, e quindi forse anche io come madre non funziono”. L’accettazione di questo, porta spesso all’interno delle storie un momento di forte “stallo”; la donna non sente di portare avanti la propria esistenza, identità… è violata sotto ogni aspetto: il lavoro, gli interessi, l’essere madre o semplicemente lei, donna. C’è bisogno di molto tempo, le ferite necessitano di cure lente e spesso anche silenti. Alle volte ciò che è “più urgente da gestire è un tempo invece molto lungo e doloroso”.
Presentarsi al Centro: ho sempre pensato a quanto, per una donna che si rivolge ad un Centro Antiviolenza, il solo fatto di “presentarsi” sia una scelta difficile e di grande coraggio, un passo verso qualcosa non ancora ben chiaro e che spaventa molto. È ancora più emozionante quando nel corso del tempo, le donne cambiano, “fioriscono”: sono donne differenti da quando sono arrivate e non solo per il proprio vissuto, ma soprattutto nel rispetto ricoltivano per loro stesse, nel vedersi sotto una luce diversa, troppo tempo offuscata e violata. È bello vederle rinascere, prospettare un futuro nuovo, darsi una possibilità, perché se la meritano davvero, ed è veramente tangibile alle volte il cambiamento, che lo si coglie dalle piccole sfumature: parole, gesti e modi di porsi. Ecco, F. e la mamma di Joy sono così, insieme a tantissime altre, che incontriamo giornalmente, ognuna delle quali con le proprie peculiarità e risorse, si concede delle possibilità e questo non è mai scontato.
Cosa può fare un CAV? Accompagnare nel proprio percorso di elaborazione e fuoriuscita da un vissuto di violenza, riscoprirsi donne, persone, ascoltare le proprie storie, toccarle empaticamente e allo stesso tempo supportarle concretamente, diventa un’opportunità ed un arricchimento anche per noi operatrici. Abbiamo l'onore di poterle accompagnare, sostenere nella loro rinascita, non considerandolo di certo solo un “lavoro”, bensì una mission. Da operatrici dei Centri Antiviolenza, questa attesa si fa presenza, si fa ascolto, ponendo l’accento a quei dettagli così prepotenti e destabilizzanti.
Miracoli bellissimi: il lavoro nei CAV (Centri Antiviolenza), è sicuramente dato da una formazione continua, ma prima di tutto, da una messa in discussione continua. La prima distanza non è tanto, seppur fondamentale, data dal coinvolgimento emotivo che ogni storia trasmette, quanto dal rispetto di quel vissuto, di quei tempi, di quell’elaborazione; solo dopo, si farà strada il dare un “nome” e raggiungere maggiore consapevolezza, assistendo al “miracolo” più bello, ossia, quello di una donna che rinasce, che in modo dirompente evolve e si rigenera. Essere operatrice è anche essere grata alle attese, pure a quelle che fanno male, è attenzione ai dettagli e gratitudine, perché è possibile assistere quotidianamente a dei miracoli bellissimi.
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